-- h o m e -- f o t o -- r e l a z i o n i -- a t t o r i -- f o r u m -- a m i c i --


RELAZIONI

in realta' una sorta di appunti piu' che descrizini tecniche delle vie salite





Eccoci qua, nuovamente all’attacco della via. E’ passata una settimana da quando, a causa di un improvviso temporale abbiamo lasciato la parete con la promessa di tornarci il più presto possibile. 

Il sentiero che da Vallesinella porta alla base della Corna Rossa si srotola con piacevoli saliscendi tra boschi ed ampie radure fino al faticoso ghiaione terminale, porta d’accesso per le vie. 

Ci prepariamo, una veloce minzione, sigaretta e via…, il primo tiro lo ricordo bene: un facile camino di rocce rotte, l’aggiramento di uno spigolo e su di uno spazioso terrazzo detritico la prima sosta. Mi attendono sorridenti i moschettoni ed il cordino usati per l’ultima doppia sette giorni fa. Siamo in estate, poca la gente che percorre la via, forse è troppo facile per i canoni attuali o forse semplicemente non si ha più voglia di faticare un pelino in più. Meglio così, mentre recupero Andrea, mi godo il silenzio interrotto saltuariamente dal gracchiare della ricetrasmittente. 

Le corde scorrono veloci nel bicchierino, il secondo tiro, un larga fessura all’inizio, un bel muretto seguito da un diedro aperto ci avvicinano al limitare dell’ombra. Cambio di materiale, traverso a sinistra su di una cengia esposta, trovo un chiodo non visto la volta precedente, visto il giro che fa la corda meglio una coppia lunga, un altro diedro aperto, traverso a destra, scavalco il grande pino mugo che funge da punto di riferimento della via e sono comodamente in sosta. Il sole scalda l’aria con forza, appendo lo zainetto, tolgo il k-way, chiamo il mio compagno. 

Il tiro chiave è corto ma bellissimo, un diedro rossastro strapiombante seguito da una perfetta fessura verticale ad incastro per le mani, piccolo traverso esposto sotto un tetto, sosta. Prima di partire una scaramantica raccomandazione del Tuzzi <<…ocio…>> rivela un poco di timore reverenziale. Il suo modo fisico ed immediato di salire sono l’ideale per superare tratti di questo tipo. Quando dalla radiolina mi giunge la notifica della sosta mi preparo a partire. Queste walkie talkie sono una grande invenzione, tolgono, forse, un po’ di avventura ma ti permettono di non innervosirti quando non riesci a comunicare con l’altro.  

Il caldo e lo sforzo mi fanno sudare, capita raramente, preferisco tirare meno di braccia, anche perché di forza ne ho pochina; la fessura invece è splendida: le gambe in opposizione spingono sulla roccia, la suola tiene anche sulle tacche lucidate dai passaggi. Raggiungo Andrea, mi complimento con lui. 

Tranne i primi cinque o sei metri, da qui in poi la via è nuova. Uno sguardo alla relazione e parto. Seguo lo spigolo, raggiungo il punto di calata della volta scorsa, supero un bel muretto con delle rigole verticali e proseguo fino ad una larga cengia, altro traverso a sinistra per qualche metro e comincio a cercare i chiodi. In un primo momento non li trovo: impossibile, devono esserci. Pochi chiodi lungo i tiri ma le soste sono belle. Mi sposto ancora a sinistra. Un luccichio mi avvisa che ho raggiunto la meta. Due moschettoni, fettuccia, ghiera, piastrina pronta all’uso e premo il piccolo pulsante arancio.  

Una breve fessura verticale, un tratto ascendente verso destra fino allo spigolo, dove avremmo potuto sostare, ed il color cobalto del cielo, danno la direttrice del tiro. Bello il piccolo “spancio” dopo l’eventuale sosta: dona quella sensazione di forzare la gravità che noi grimpeures rincorriamo; taluni prediligono levigate pareti adorne di tacche e buchetti più o meno accennati, altri preferiscono strapiombi e tetti più o meno orizzontali. La ricerca del passaggio su un masso, della salita di un monotiro o più epicamente della “conquista” di una vetta, sono tutte progènie del medesimo impulso.  

L’ultima lunghezza è sbrigativa, anche se per un attimo mi trovo spiazzato nel superamento di un piccolo muretto a prima vista banale. Mentre recupero Andrea, saluto Gabriele e Paolino sul torrione accanto al nostro. Ci ritroviamo poco prima del rifugio Graffer per tornare insieme verso casa.  

Una pausa per un panino speck e formaggio accompagnato da una radler, due parole sulle rispettive salite e siamo pronti per il ritorno. Per fortuna oggi non guido: mi accomodo sul sedile posteriore e dopo poco, come sempre, mi addormento ..…anche oggi ho guadagnato qualche cosa.

Callu







Il percorso fatto ieri è stato un po' avventuroso, ma la colpa è stata in parte dell'admin del forum che ha rinunciato all'uscita di sabato (per me sudatissimo), dando colpa ad una fantomatica caviglia. Venerdi sera Dario, al quale avevo telefonato dopo il forfait di Nicola, mi richiama infine alle 21 e rotti e mi dice: vieni con noi, domani cresta Segantini. Chi di voi mi conosce sa' quanto io sia inganfito su roccia e il primo impulso è negativo, ma poi, attratto dalla meta, mi lascio facilmente trascinare e sabato mattina faccio salire sull'auto i due soci. Dal Pian dei Resinelli andiamo per la direttissima fino all'inizio della ferrata, fuori dalla quale ci si porta all'attacco della via vera e propria. Dario è gasato e parte legato in conserva; tre metri, perde l'appoggio del piede sinistro e sbam: rotola indietro e mentre Edo si tira da parte, io mi tuffo e con presa (quasi) sicura lo blocco mentre rimbalza sulla schiena, protetta dallo zaino. Risultato: Dario dice di non essersi fatto proprio nulla (poi si scoprirà una distorsione alla caviglia, qualche botta e abrasione) io lamento un po' di dolore alle dita della mano sinistra lanciata di punta sulla roccia, così come un dolore al ginocchio che sparirà in un oretta. Ripartiamo immediatamente e Dario, inforcate ora le scarpette (è l'unico di noi ad averle nello zaino), sale sempre da primo in sicurezza, senza ripercussioni per la caduta. Io e Edo seguiamo con qualche titubanza; anzi le titubanze sono le mie nei pochi passaggi tecnici della salita, che comunque procede bene. La relazione che Dario ha scaricato è di due pagine e con la prima pagina e mezza arriva fino alla ferrata, così nei casi di dubbio aguzziamo la vista per cercare i bolli rossi o andiamo a naso nei tratti dove non sono presenti. Dario piazza anche qualche friend ed un paio di cordini nelle poche clessidre; tutto sembra filar liscio, ma quando guardiamo l'ora cominciamo a pensare di essere lenti, perchè invece di vedere l'uscita, davanti a noi la sorpresa di un bel traverso innevato/ghiacciato. Sorpresa perchè all'attacco avevamo chiesto info, ed un paio di ragazzi ci avevano detto di averla percorsa domenica, senza neve... mah, fuori i ramponi e si va'. Dopo il traverso una doppia ci porta verso il fondo di un canalino innevato, ma a darci da pensare è la successiva risalita: alla neve sul fondo del canale segue un tratto non eccessivamente pendente, ma dove si alternano lastroni incrostati di ghiaccio e qualche punto innevato... Constatata l'impossibilità di assicurarci in qualche modo, mi carico le due corde in spalla e provo a vedere com'è. I soci mi seguono per un tratto, poi si fermano. Non che io sia particolarmente convinto, ma ormai sono a metà e poco più in alto ho visto un chiodo accanto ad un bollo rosso e riesco a raggiungerlo. Tolgo le corde, ne lancio agli altri quanto basta per raggiungerli, e dopo averle bloccate con un barcaiolo mi lego alla parte restante e, mentre gli altri risalgono con i prusik, io mi avvio in alto per guadagnare tempo. Il tratto più brutto è finito, gli altri adesso mi danno corda con l'otto e, quando trovo finalmente il posto per metterre una prima protezione, mi accorgo che 3 metri sopra di me un vecchio cordino sbuca da una clessidra: faccio sosta con una fettuccia e mi raggiungono i compagni che proseguono poi fino in cresta, la quale senza grosse difficoltà ci porta ad una calata in una gola. Oramai sono le 17.30 ed il sole è tramontato. Dario si avventa sulla paretina successiva che però dopo pochi metri lo mette un po' in difficoltà, anche a causa del buio; dice poi di poter passare con un'altro tentativo, ma riesco a convincerlo a scendere e ad abbandonare la via (scopriamo poi che era l'ultimo tiro) per dirigerci a destra verso la cresta Cermenati per la quale abbiamo visto una indicazione. Arrivare poi in vetta è questione di un quarto d'ora, e ci troviamo davanti al bivacco quando oramai è del tutto buio. Riproviamo a telefonare e mandare sms, senza successo. Io mi sono portato la mia piccola lampada frontale di emergenza e dico agli altri che scenderò sicuramente se non riesco ad avvisare del nostro ritardo, altrimenti ci vedremmo arrivare i soccorsi allertati dai famigliari. Dario ha la caviglia dolorante, il sentiero di rientro (cresta Cermenati) non lo abbiamo mai percorso, è buio pesto... Finalmente la situazione si risolve quando Dario riesce a far partire un messaggino: ci apprestiamo a dormire nel bivacco. Che poi del bivacco ha poco, neanche le brandine. Mangiamo quello che abbiamo e buttiamo sul pavimento il contenuto della cassapanca del bivacco: una specie di sacco in tessuto di nylon con delle fibbie che ci tortureranno durante la notte, una vecchia coperta che verrà utilizzata da Dario, che è il meno coperto, e pochi fogli di giornale. Usiamo i nostri zaini come cuscini, indossiamo anche le giacche a vento, infiliamo le punte dei piedi nei guanti e ci buttiamo addosso un telo di alluminio d'emergenza uscito dallo zaino di Edo. Continui tentativi, portano finalmente al successo un paio di telefonate e ci avviamo più sollevati alla notte. Piuttosto scomoda, sul pavimento e con un po' di crampi, e fredda, con il telo di alluminio che viene tirato di qua e di la' per cercare un po' di riparo. Il vento fuori fischia abbastanza forte, ma le temperature non sono quelle degli inverni veri, così si arriva a mattina anche senza sacco a pelo e ci ritroviamo seduti sulla panchetta, tutti bardati, ad aspettare che schiarisca quel tanto che ci permetta di muoverci. Finalmente si va'. La foto di vetta che non abbiamo potuto fare ieri, e poi in discesa mentre il sole inizia a fare capolino ed illumina uno spettacolare mare di nuvole che copre tutto fino ad una altezza di circa 1300/1400 metri, e che merita l'ultimo scatto. Una bellissima uscita, con il vero gusto della montagna, ma forse da noi affrontata con un po' di sufficienza. Per gli amici che si vogliono cimentare serve: - capocordata che si muova sul III/IV in ambiente con scarse protezioni - nelle mezze stagioni ramponi indispensabili (non avrei disprezzato la piccozza) - cordate da due, veloci nelle manovre, affiatate e sicure nel muoversi in conserva - preferibile che si sia fatta la via una prima volta nella stagione "buona" - in inverno (quello vero) direi che la via è riservata a chi conosce il percorso e arrampica indifferentemente su roccia e ghiaccio con ramponi e guanti Grazie a Dario e Edo per l'ottima compagnia, un po' però sono dispiaciuto per le poche volte che riesco a combinare con i caventini...

Marcello







Sembra a volte che si debba pianificare una uscita nei dettagli per far si che riesca bene; poi trovi gite come questa che.. Si va' sabato; no domenica; siamo in 3; poi 4 e poi 5; si va' per questa benedetta traversata delle vette della Presolana; no ci aggreghiamo agli amici del GAL; che fanno? boh, valle del Gleno; a far che, non si sa bene. Alla fine il Cavento si riduce a me e Nicola (ultimo sms di rinuncia alle 05.30) e con i lumezzanesi andremo a salire un facile canale che porta al pizzo Tornello. Già. Ma poco dopo avere passato la diga del Gleno con annesso laghetto gelato, Giovanni adocchia un lungo canale che sale sul lato sx orografico della valle e porta fino sulle creste; certo nulla a che fare con quello previsto... Un attimo di titubanza generale, ma Giovanni è già dall'altra parte del torrente e con passo spedito (uh..spedito..) si dirige verso l'attacco. Fuori piccozze e ramponi e ci infiliamo nella larga base che con pendenza piuttosto dolce ci avvicina al canale vero e proprio; mentre sbuffiamo in salita, più volte Giovanni ci supera agilmente e si piazza a fare riprese e commenti con la sua telecamera... Ci spostiamo verso sinistra, saliamo, e poi, dopo breve consulto, di nuovo a destra fino ad affrontare un muretto più ripido con fondo non troppo ben messo e sul quale cerchiamo con le punte di ramponi e piccozze il terreno sottostante. Ancora qualche decina di metri e un traverso (lieve indecisione: la neve non è certo ideale per tagliare a questa maniera) ci porta sotto alla bella parte finale del canale, che da questo punto si stringe, diventa più coreografico e ripido. Negli ultimi metri la neve, che qui viene raggiunta del sole, si fa' vuota di sotto e convince Davide e Loredana, che sono davanti, a spostarsi tra le rocce erbose a sx; io invece provo ad uscire diritto, ma devo ravanare un po' per arpionare l'erba sottostante e questo convince gli altri dietro a me a dirigersi un po' più a destra, percorrendo forse l'uscita più logica. Breve pausa per ricongiungerci e per decidere il prosieguo: si prova la cresta, in caso di difficoltà ci si abbasserà a traversare a mezzacosta. Seguiamo il filo alternando roccette e neve fino a giungere ad una vetta (?) da cui vediamo la sella che ci separa da quello che dovrebbe essere il pizzo Tornello. La discesa al passo è abbastanza ripida, per alcuni metri si scende tra le rocce e poi su uno scivolo di neve, che si allarga progressivamente. Dal passo alla vetta è solo una tranquilla risalita, resa un po' faticosa dalla neve che sta mollando. Dopo la sosta per rifocillarci vicino alla croce, torniamo alla selletta e ci abbassiamo nel largo pendio che ci riporta verso il fondovalle, non senza qualche bella scivolata, cercando tra le fasce rocciose il percorso più breve. Scendendo accanto al torrente, alzo il naso e ripercorro con lo sguardo il "nostro" canale; è stata proprio una bella salita, completata con la cresta e la vetta, e condita da un meteo spettacolare. Non c'è che dire: per la nostra prima uscita con gli amici del GAL non potevamo desiderare di meglio. Un grazie a Giovanni, Davide, Loredana, agli altri dei quali magari imparerò il nome la prossima volta; e pure all'inimitabile Marina che ci ha presentato. Per quanto riguarda difficoltà, dislivelli, pendenze, sviluppi e quant'altro il topografo del Cavento avrà già sicuramente provveduto, completando l'opera disegnando accuratamente il nostro percorso su una delle sue spettacolari fotografie.

Marcello







Un'altro bivacco. Vien naturale dopo un pò: è il primo anno che ne faccio e ora mi sembrano una cosa scontata. Stavolta io e Mauro ci siamo portati un compagno poco avvezzo a rocce e scomodità, che però pare sappia cavarsela benissimo con entrambe le cose. Sono gia' due giorni che la bolla calda s'e' sgonfiata e le temperature ci ricordano che in fin dei conti l'inverno è alle porte. Cosi saliamo la valle del Caffaro, doppiato Bagolino, con una certa apprensione, sperando di intravedere nella valle dei sintomi che ci confermino la risalita dello zero termico prevista dai siti meteo. Invece è l'opposto e ancora prima di Val Dorizzo, sulla curva prima della diga ci gela il sangue il ghiaccio compatto di una cascata di fronte a noi! Neppure 1500 mt slm... Poi, svoltato nella valle, e' tutto un ghiaccio. Non scende un filo d'acqua dai lati della valle, e' tutto bianco e immobile. Ci incamminiamo e il vento comincia a farci compagnia. Nei pressi della diga la casa dei guardiani si staglia con le sue luci calde nel panorama blu illuminato da una luna fortissima. Purtroppo con l'arrivo al rifugio risuona la nota stonata del we: il rifugista del Tita Secchi, all'opposto di quello del Maria e Franco, con spirito antitetico a quello dell'alpinista, si e' preoccupato piu' della apparenza che della sostanza. Le chiavi del bivacco si ritirano dai guardiani della diga per costringere chi vi si rifugia a sborsare 5 euro a testa, ingiustificati da cio' che si trova al bivacco: solo letti e un tavolo, neanche le sedie! Belli i letti di legno nuovi, belle le coperte con il nome del rifugio, ma chi arriva qui di notte con temperature sotto zero preferirebbe pagare i 5 euro per qualcosa di meno futile, come acqua o gas... E pensare che il rifugio e' di proprietà della nostra società, l'Ugolini di Brescia, che smacco! Cmq ci organizziamo col nostro fornellino MSR, gentilmente offerto dall'amico Stefano, e la cena e' servita. L'indomani sveglia a alle 5.30 (2°C all'interno, non ha fatto troppo freddo) e partenza per il Blumone che già albeggia. Dal passo si prende prima una ripida pietraia che poi si affila in una cresta rocciosa per pochi metri. Poi si taglia verso est costeggiando molto in basso la cresta nord (che da sotto non pare cosi facile come la descrive il Sacchi, ma ci dev'essere il trucco...) per arrivare a doppiare una costola ed entrare in un largo diedro-canale, facile I°, che porta sulla crestina finale, alla croce e in ultimo al cippo trigonometrico. Il bel panorama di questa cima isolata ripaga del vento e del freddo che il pallido sole non riesce a scacciare. Giù di nuovo per la normale mentre qualcuno sale disinvolto la cresta nord e poi dal passo pieghiamo a ovest e, per facile crestone, risaliamo anche la cima di Laione. Da qui costeggiamo la cresta in direzione del Listino cercando di restare nei pressi della stessa ma visto che non sara' possibile farlo fino alla meta, decidiamo di tornare per il filo cresta fino al Laione e poi calare sul N°1 e seguirlo fino al Listino. La cresta pero' si rivela subito piuttosto friabile e la abbandoniamo (con spirito invero poco caventino, ma laviamo la coscienza colla scusa che Marco e' poco esperto...). Ora il tempo diventa incerto, nuvole si addensano a sud e prendiamo un po' di tempo per vederne le evoluzioni scaldando un po' di ghiaccio fra dei massi, anche perchè l'acqua, usata anche per la cena e il te della mattina, ormai scarseggia. Il tempo resta incerto e non e' piu troppo presto, cosi si decide per la discesa. Da qui prendiamo per il passo del Termine dove diversi ruderi di costruzioni militari osservano le valli del Caffaro e di Leno, e poi giù per la gelata costa fino a una valletta dove confluiscono divere piccole e facili goulottes già ghiacciate (ci ripromettiamo di tornare a esplorarle), e infine giungiamo alla macchina, due ore piu' in basso. Birra e panino al bar nella piana del Gaver chiudono i conti col freddo e anche questa lunga girata del più meridionale dei gruppi adamellini.

Nicola







Fine ottobre, ma e' una settimana che il freddo piovoso autunnale ha ceduto il posto a una parentesi di caldo sopra media, e anche oggi splende il sole mentre saliamo alle case di Val Paghera (di Ceto). Sotto la media invece il mio allenamento: il risultato sono i crampi che mi prendono quando, dopo una corsa contro il crepuscolo e 1200mt di dislivello sviluppati lungo la stupenda e incassata valle di Dois risaliamo l'ennesima ganda in vista del rifugio Maria e Franco accompagnati dal simpatico e rustico cane che ci affianca fin dalla partenza (a chi l'abbiamo preso in prestito?). Al buio spalanchiamo la porta del locale invernale e ... sorpresa! Il burbero Sig. Massussi e' un previdente rifugista che ha rifornito l'invernale del suo rifugio con una cucina economica completa di piu' bombole di gas e una fila infinita di bottiglie d'acqua allineate contro il muro! Finiscono il corredo tre letti a castello e un armadio di rete antitopo (crediamo) pieno di coperte ben ripiegate e infilate singolarmente in sacchetti di plastica trasparente che paiono fatti apposta. L'umidità invece non e' un appunto che si possa fare a lui, e gia che c'e' decidiamo che fa atmosfera. Non ci facciamo pregare e dieci minuti dopo bolle gia' l'acqua per la cena, poi quella di un abbondante te. Buona notte... no, aspetta va la', non sono nemmeno le otto! e allora viene il bello del bivacco: racconti, ricordi, confronti, qualche pensiero malinconico (quello resta nel proprio sacco a pelo pero'). L'alba viene... no, verra'. E' buio, ribolle il te. Grazie Marcello, previdente vivandiere di questa uscita. Si parte. Dal rifugio salutiamo nella luce del mattino la Bocchetta Brescia, la Rossola di Presona, il Tredenus, il Frisozzo e poi ci giriamo. Saliamo un pezzo di sentiero verticalmente verso cima Dernal, descritta dal Sacchi come "insignificante elevazione della Cresta ovest del Re di Castello", ma che a noi vale un punto-cima (d'altronde ha un suo nome, ergo una sua identità). Da qui inizia il divertimento: su e giù per lastroni inclinati, incastrati nel caos di mille altri simili sottostanti che formano questa lunga e facile cresta, mai troppo esposta, mai elementare o banale. Certo, passandole sotto di solo qualche metro il discorso cambia: niente piu' difficoltà ma niente piu' vento, e uno cosa le fa a fare le creste senza potersi godere il vento? Da quando abbiamo raggiunto cima Dernal il sole ci bacia. La cresta esplode di sole a sud, alla nostra destra, sopra la luminosa conca del Gellino, erbosa e calda; alla nostra sinistra invece dominano i toni del blu: il granito, chiazze di neve, il buio luminoso del mattino a nord. E si continua, giu verso l'intaglio del passo del Gellino, su verso l'anticima, poi una diroccata baracca di guerra segna l'arrivo in vetta. Ancora due lastroni, attraversiamo la piazzola sommitale e tocchiamo la croce. Sono anni che voglio arrivare qua. Da quando ho avvicinato le montagne. Ci sono passato sotto diverse volte, un'altra sono arrivato alla baracca ma la nebbia mi ha ricacciato giu. Ancora il vento e' con noi, sono le 9.30 del mattino e il Care' ci guarda laconico e roccioso (dove sono finite le sue vedrette sud??). Piu in la lungo la stessa cresta il Cavento invece mostra il suo lato piu' affascinante di cuspide perfetta, sotto di lui la seraccata della Val di Fumo cade ancora senza neve alla testata della valle... Le nuvole a ovest che minacciavano di rovinarci la giornata si sono disperse e ora il sole, seppure un po' pallido, ci sorride. Si torna. Cerchiamo il cane del giorno prima che stamane ci ha accompagnato fin sotto la cresta e che ha poi deciso di tornare. Dov'e'? fino al rifugio temiamo si sia perso fra i blocchi di granito e invece, eccolo, e' salito con due escursionisti mattutini che sono giunti ora. Era sceso fino alla malga (800mt piu' in basso) e li ha accompagnati qui. Sono i soli che vedremo in due giorni e scambiamo due chiacchere. Poi giu di nuovo, con cane al seguito, fino all'auto.

Nicola







Tra sabato pomeriggio e domenica, io e Mauro abbiamo fatto una delle più belle uscite della stagione. Arrivati la sera alle 19 e qualcosa all'invernale del Garibaldi in mezzo alla nebbia, siamo saliti il mattino dopo sempre nella nebbia fino al passo del Venerocolo, dove abbiamo imboccato la cresta che si dirige verso la cima del Monte dei Frati (3284). Si percorre una prima parte, larga, su pietraia e poi, mentre si fa' vedere il sole, comincia il divertimento: si cerca di tenere il filo, cercando il passaggio a volte sulle rocce della cresta, a volte abbassandosi un po' a sinistra. Le rocce ricoperte della brina della notte richiedono attenzione, ma non sono mai difficili; alcune chiazze di neve alla fine ci convincono a calzare i ramponi per percorrere l'ultima parte della cresta e raggiungere l'ometto di sassi che segna la vetta, o quella che sembrerebbe la vetta: una volta sopra vedo altre due punte che mi sembrano più o meno della stessa altezza e, a scanso di equivoci, percorro i pochi metri restanti del filo di cresta e le raggiungo... Torno all'ometto e Mauro mi fa' la foto di vetta rimanendo un po' di sotto: non si sente sicuro, quando ormai gli mancano pochi metri da percorrere in discesa e forse venti o trenta di salita. Sarà questo l'unico neo di una uscita quasi perfetta: la notte nell'invernale, il gruppo dell'Adamello, la salita per cresta marcia su una cima un po' dimenticata, il meteo, la compagnia. Nelle 27 ore, comprese dei viaggi in auto, abbiamo riunito gran parte delle cose che continuano a spingermi ad andare in montagna...

Per completare vorrei aggiungere una cosa: sul libro di Pericle Sacchi (Adamello II - CAI/TCI), è riportata per la salita una descrizione di 3 righe ed il grado F. Non sono abbastanza esperto da proporre una gradazione, tuttavia penso di poter dire che l'indicazione F (riservata spesso a semplici,anche se non privi di pericoli, trasferimenti su ghiacciaio) sia fuorviante; è meglio che i futuri salitori sappiano che si deve cercare il passaggio tra roccie instabili, scegliendo se affrontare passaggi in cresta più impegnativi o abbassarsi in aggiramenti più marci; che spesso le difficoltà strettamente tecniche (si arriverà forse a qualche passaggio di II grado?) sono meno impegnative di quelle "ambientali": rocce bagnate o gelate, chiazze di neve o ghiaccio, sfasciumi mobili... In questo senso penso che l'impegno complessivo di una salita di questo tipo sia diverso da quello riportato. O che almeno vengano aggiunte alcune note esplicative.

Marcello







La via Maria Cerco di tornare indietro nel tempo e ricordarmi nel dettaglio la via Maria al Pilastro Sud del Pordoi… un po’ come Claudio a cui domandi di descriverti una via e lui turuturutu, inserisce il nome nel computer che è la sua testa e tempo un secondo te la snocciola in tutti i particolari, varianti comprese… beh come sempre la mia memoria non mi aiuta e fatico anche a ricordarmi quando esattamente abbiamo imboccato la Brennero diretti a Passo Pordoi per percorrere questa meritevole classica dolomitica: il 10 settembre? O il 17? Mah nella testa aleggia una nebbia che sono sicura quel giorno non c’era e una certa difficoltà a mettere a fuoco le tappe. L’unico sostenitore in questo sforzo immane di inseguimento è il cuore da cui riesco ad estrarre - anche a distanza di tempo – i caldi ricordi di un’esperienza che mi ha toccato. La via Maria è una di questi: l’abbiamo affrontata in 6, armati di entusiasmo e per una volta anche di fortuna: giornata 5 stelle con sole senza intoppi e temperature quasi estive che ci hanno permesso di arrampicare in maniche corte (e il micropile e il pile e la giacca antivento e le due paia di guanti si sono rivelati un attimo superflui!). Le cordate sono state così divise: Ste con la Betti, l’orso Emilio con Carletto e io..e io…fatico a scriverlo, l’emozione mi fa tremare le dita sulla tastiera… io beh, ho avuto l’onore di legare il mio capo della corda a quella del mitico Santino. Una fortuna che mi ha permesso di vivere al meglio l’avventura. Siamo partiti noi due infatti e per una volta, grazie alla presenza rassicurante del “grandissimo” sono riuscita ad accantonare il mio ritmo bradipesco di arrampicata e raggiungere la vetta al Pordoi in tempi ragionevoli e senza inutili paure. Entriamo nei dettagli però: si tratta di una via di 11 tiri di III-IV grado (con un passaggio di IV+ ) che sale fino all’arrivo della funivia. Dislivello: circa 300 metri, roccia ottima. Tranne il primo tiro: all’attacco infatti l’affetto degli arrampicatori per la via aperta dal grande Piaz si percepisce nettamente, con la vista e il tatto. Alcune prese sono lisce e lucide, come i piedi delle madonnine in pietra che nel buio delle chiese pie signore hanno lustrato con devozione per decenni. Affrontare questo tratto delicato proprio all’inizio non mi ha illuminato d’immenso quindi, ma non mi ha certo fermato. Solo deviato: bisogna infatti puntualizzare che si può attaccare la via in due modi: risalendo di petto il camino iniziale o partendo dalla sua destra e spostandosi nel camino successivamente. Beh io ho visto Santino “sbuffare leggermente” sul camino, ho rapidamente inserito quel segnale nel mio convertitore mentale e nel mio cervello si è accesa una segnaletica lampeggiante di pericolo: “passaggio impossibile” “passaggio impossibile”. Il mio navigatore satellitare mi ha quindi suggerito l’alternativa sulla destra che ho superato con titubanza e “rara eleganza” (per fortuna non esistono prove fotografiche!). Il tiro successivo prevede un passaggio di IV+: l’ho superato senza soffiare come un mantice quindi vuol dire che è alla portata di chiunque. Sul terzo tiro si percorre una comoda cengia per poi risalire una rampa obliqua verso destra fino a giungere a un terrazzino. Un po’ di attenzione solo quando si manovra sulla sosta perché si rischia di buttare sui malcapitati che arrampicano più in basso scariche poco piacevoli di sassi. Sul quarto tiro dovresti proseguire lungo la rampa, sempre obliquando verso destra fino a giungere in prossimità di un tetto triangolare. Nei miei ricordi in quel tratto Santino ha preferito traversare senza alzarsi eccessivamente: abbiamo così mancato la sosta “ufficiale” rimediando con una a cordini, resa più che sicura dall’abbondanza di clessidre. Da quella sosta Santino è poi risalito lungo il tratto più facile della via (III°) assicurandosi su clessidra fino ad arrivare a un salto di roccia e infine alla sosta. Seguirlo è stato piacevole (anche se non finirò mai di sottolineare l’importanza di distinguere tra primo e secondo di cordata: con la corda dall’alto è tutta un’altra cosa!!) In questo tratto le altre due cordate hanno toppato, fuorviate forse da suggerimenti non del tutto corretti: la Betti si è ritrovata così ad attrezzare una sosta in più, con notevole perdita di tempo per loro e gli altri due inseguitori. Quindi occhio! Da lì per facili rocce abbiamo obliquato verso destra sempre assicurandoci a numerose ed amate clessidre fino ad una nicchia. Ne esci a destra con passaggio delicato fino ad un terrazzino. Santino è quindi salito dritto su una parete verticale (IV°) che esce su un terrazzino alla sommità del pilastrino staccato. Sul tiro successivo Santino ha proposto di proseguire in conserva per guadagnare tempo. Nessun problema anche se a posteriori mi sono detta che sarebbe stato forse meglio salire slegati: cadere dalla cengia infatti voleva dire trascinarsi il compagno senza avere alcuna possibilità di trattenerlo…ma questa è la mia opinione di profana! Da qui in avanti non ci sono difficoltà oggettive: mi ricordo solo che la stanchezza mi ha fatto sembrare gli ultimi tiri una infinita strada verso l’irraggiungibile oasi. Devi solo badare a raggiungere un torrione giallo che va aggirato sulla sinistra fino ad un ampio colatoio dal quale si risale facilmente (anche in scarpe da ginnastica!). L’arrivo è pittoresco: l’ultima sosta attrezzata sulla ringhiera del rifugio, una folla di curiosi a rimirare le nostre manovre e la funivia che oscura a tratti il sole …e diciamocelo, la poesia! In ogni caso la via merita, primo perché rispetto ad altri itinerari dolomitici non sei costretto a salire con la preoccupazione che la roccia a cui ti stai aggrappando ti si sbricioli tra le mani. Secondo perché si tratta di un percorso vario e stimolante, facilmente proteggibile e divertente. Terzo perché la vista una volta arrivato in vetta vale decisamente la candela. Certo, mi direte voi, puoi goderti lo stesso panorama anche ricorrendo alla comoda funivia ma la soddisfazione di arrivare in vetta scalando la montagna –credo non ci sia bisogno di sottolinearlo – è tutta un’altra cosa! E poi di quel giorno mi ricordo bene la gioia dell’arrivo, la sensazione di aver fatto bene la via, il senso di pace che mi avvolto, solleticato dalla schiuma di una birra gelata che rappresenta –credo – la migliore combinazione con un fine scalata. Senza tralasciare lo spettacolo che ci siamo goduti dal terrazzo del rifugio, gentilmente offerto da Mr Bosiuuuus. L’ homo rampicantis si è infatti cimentato in una nuova variante della Maria che lo ha inchiodato su una cengia per un tempo incalcolabile suscitando raffiche di divertiti commenti… Bosiuss no te preocupe resti un grandissimo…malato del grado. Complimenti a tutti noi, non solo per l’arrampicata ma per lo spirito con cui tutti noi attacchiamo una parete. La voglia di abbracciare la montagna, il desiderio di staccarsi dal resto del mondo per un giorno, il cerchio che si chiude quando ad affrontare queste avventure è un gruppo di ragazzi che godono dello stare insieme. Senza ambizione….tranne il Bosiuuus naturalmente, ma noi gli vogliamo bene lo stesso!

Daniela







Primo giorno Siamo partiti sabato pomeriggio. Oltre 4 ore di viaggio in macchina, a cui aggiungere forse un'ora per una nostra tendenza "perniciosa" a perderci, prima nell'hinterland torinese e poi in Francia dove i nostri cugini sembrano ben intenzionati a non pubblicizzare le proprie bellezze turistiche, evitando di affiggere cartelli stradali ad hoc per guidarci alle nostre amate montagne. Ad accoglierci nel buio di stradine isolate dal mondo, due amici del capogita Marcello, Silvia e Mirko, in vacanza in Francia con il loro camper. Sono loro a indicarci il posto dove dormire, uno spiazzo d'erba poco distante dalla strada e nascosto dagli alberi. Decisamente pendente, tanto che nella notte mi trasformo in un bruco che ostinatamente cerca di risalire, "imbozzolato" nel sacco a pelo, alla testa della tenda. Alla mattina sia io che Elena ci eravamo arrese accontendandoci di dormire appoggiate ai lati della tenda in uno spazio pari a un terzo della capienza totale. Il riposo del guerriero non era stato dei migliori ma la giornata si presentava magnifica e tutto il resto non aveva importanza. Secondo giorno Colazione con panino al salame e ringo e poi via, verso il parcheggio ad Ailefroide, punto di partenza per il sentiero verso il rifugio Ecrins, prima tappa della nostra escursione. Massacrante: gli zaini pesano e la salita pare non finire piu'. Abbiamo tutta la giornata davanti per raggiungere il rifugio pero', e ne approfittiamo per non forzare troppo i ritmi, godendoci una ricca pausa (oltre un'ora) al rifugio Glaciers Blanc. Mentre sonnecchiamo al sole arriva un gruppo di veneti che ha gia' fatto il ghiacciaio. Soddisfatti ci confermano che la meta vale davvero la candela e che la neve e' perfetta. L'entusiasmo sale ma e' destinato a calare nella seconda parte della salita quando al comodo sentiero si sostituira' la traccia in un nevaio crivellato di buchi e crepacci. Niente di pericoloso ma la mancanza di ramponi e picca un po' si fa sentire. Il mio umore, e quello di Elena, si fa ancora piu' tetro quando vicini al rifugio incrociamo un gruppo di francesi capeggiati da una giovane- e decisamente affascinante - guida alpina: "tres beau" ci dice "mais tu dois courir dans le trait final: pierres a go go" pietre? Pietre ?!? ma Marcello non aveva detto che non c'era alcun pericolo di scariche di sassi? Lui e i suoi amici non ci avevano dissuaso dal portare i caschi tanto da spingerci, insieme alla pigrizia e alla prospettiva di qualche etto di peso in meno nello zaino, a lasciarli nel portabagagli? Io e Elena ci diamo delle stupide, arrabbiate con noi stesse per aver dimenticato una delle lezioni piu' importanti dell'alpinismo "sicurezza prima di tutto!" mi riprometto di rinunciare qualora le condizioni non siano piu' che sicure e proseguo per l'ultimo tratto, il piu' duro: una rampa di ghiaione che si inerpica sul promontorio dove e' arroccato il rifugio. Quando arrivo mi libero con sollievo di tutti i carichi e mi mangio una pera, il viso rivolto al sole che appare impegnato in una estenuante lotta con le nuvole per riscaldarci un po'. Il rifugio alla sera e' al completo: 120 persone chiuse nello stesso posto, provenienti da Italia, Germania, Francia. Un miscuglio di lingue che la comune passione per la montagna sembra tradurre in un unico idioma. Le stanze sono affollate ma non al punto da impedirmi di dormire anche se di quel sonno leggero e inquieto che ti cala addosso ad alta quota. Terzo giorno Sveglia alle 3 meno un quarto. Colazione alle 3 e un 15, partenza alle 3 e 30. tutto come da programma ma poi alla base della salita al rifugio ci perdiamo nella preparazione e nella scelta del materiale da lasciare dietro le rocce per evitare di portarci un carico eccessivo. Si parte con mezz�ora di ritardo, in coda a diverse cordate e un po' irritati. Comunque lo spettacolo ripaga la fatica e mi fa dimenticare la noia del sovraffollamento. Davanti a noi infatti si stende un mare di ghiaccio, attraversato da una labile traccia illuminata da lucciole artificiali, le frontali delle diverse cordate. Un'immagine suggestiva che contrasta con quanto offre la montagna sopra di noi, appena visibile nella nebbia. Mentre avanziamo sul nevaio iniziale, un falso piano poco impegnativo, ci viene offerto il primo dono: la quotidiana vittoria della luce sul buio. Dietro di noi infatti il sole, ancora nascosto, sta disegnando le vette ad una a una, con tratti decisi e colori netti in un cielo sempre piu' chiaro. E poi all'improvviso si fa avanti il disco a illuminare la neve davanti a noi e la valle e le rocce. Mi fermo incantata, senza parole. Sento di aver gia' raggiunto la vetta, perche' per me la montagna e' soprattutto il viaggio nel bello pie' che il perseguimento di un obiettivo. Serena proseguo, legata a Stefano e agli altri ragazzi del gruppo, cullata dalla mastosita' di questa corte di pietre. La salita si e' fatta nel frattempo piu' impegnativa e le cordate meno allenate cominciano a rallentare il passo. E' impossibile superare per cui siamo costretti a seguire i ritmi di chi ci precede, a fermarci spesso con grande dispendio di energie, fisiche e mentali. Sono io quella che si fa vincere dal nervosismo di fronte a una coppia di donne che prosegue a passo tartarughesco senza accennare a farsi da parte. Incito Marcello a superarle ma so che non e' sicuro e infatti lui non mi da' retta. La mia irritazione sale a livelli limite nell'ultimo tratto orizzontale che corre giusto sotto la cresta. E' il piu' esposto al rischio di scariche di sassi e le pietre disseminate nel bianco sembrano lasciate li' a memento. Iniziamo a spronare le due "signore" a fare in fretta perche' e' pericoloso. Niente da fare. Il passo resta inesorabilmente e pericolosamente lento. Finalmente giungiamo alla sella finale. Da qui si puo' proseguire per la facile e vicina Dome oppure avventurarsi nella risalita della cresta fino alla Barre un centinaio di metri di dislivello sopra di noi, II grado. Uno di noi desiste. Gli altri cinque di noi si avvicinano all'attacco. Parte Marcello che ci mette quella che sembra una eternita' a salire alla prima sosta. Lo segue Elena mentre io e Stefano diamo un occhio all'orologio. Realizziamo che i tempi di risalita saranno lunghi. Sappiamo che con il passare delle ore il rischio di scariche salira' esponenzialmente. Le cordate sopra di noi sono tante, troppe. E noi non abbiamo il casco. Cosi' decidiamo di lasciare andare loro due e rinunciare, accontentandoci della Dome. Silvia, dietro di noi, non vuole desistere e si offre di proseguire, nonostante le nostre perplessita'. Non diciamo niente pero' lasciando a lei la responsabilita' di decidere. Mentre loro sono impegnati sulla cresta io e Ste ci dirigiamo sulla Dome dove gia' si godono il panorama decine di persone, un vero colpo per gli amanti della solitudine d'alta quota! Eppure la bellezza di quanto ci circonda cancella le ombre e riempie gli occhi e il cuore. Siamo davvero fortunati. Il cielo e' terso e l'orizzonte si staglia per chilometri sotto di noi regalandoci uno sguardo d'aquila a 360 gradi. Ripenso a tutte le mie perplessita' prima della partenza e sono davvero felice di non aver ceduto al dubbio. Tutto infatti sembra puntare alla perfezione. Il cameratismo con i ragazzi e soprattutto con Ste e' forte, la sensazione di poter essere me stessa senza freni. Respiro a pieni polmoni l'aria tersa dei 4000 mila metri, soddisfatta del mio corpo che marcia a pieno regime. Fotografie di rito, qualche battuta e poi via, pronti a scendere verso la sella e poi verso il rifugio, decisi ad aspettare alla base del ghiacciaio gli altri tre compagni. Quando riscendiamo alla sella ci aspetta una sorpresa pero'. Alzando lo sguardo verso la cresta infatti ci accorgiamo che Marcello e' ancora fermo a poco decine di metri sopra di noi e sta seguendo Elena mentre si cala in doppia. Decidiamo quindi di aspettarli e ridiscendere insieme. Peccato che ci sia la fila per utilizzare l'anello per la calata in doppia. Soprattutto, un incubo materializzato davanti ai miei occhi, proprio davanti a noi ce' la coppia di tartarughe francesi che si dimostreranno ugualmente lente anche nelle manovre di discesa. Sento di odiarle! Finalmente e' il nostro turno. Ci impegniamo a scendere il piu' rapidamente possibile con la speranza di avere la meglio sulle nostre avversarie. Il colpo non riesce ma questa volta in testa alla cordata ci sono io, il mulo scassamaroni e non ho intenzione di farmi il viaggio di ritorno con le due davanti. Per cui, appena trovo uno slargo ne approfitto per passarle e buttarmi nella discesa, felice come una bambina sullo slittino. La discesa e' divertente, la neve soffice ma non ancora papposa. Arriviamo alla base in tempo record con Ste che impreca perche' dice che ho il pepe al culo. E' tutto perfetto, la bellezza delle montagne, la neve, il rumore dei ghiacci inquieti che si sbriciolano, il vento che accompagna i nostri passi che affondano nel bianco. Il tratto fino alla base del rifugio pare non finire piu' ma enfin ecco il promontorio e l'austera costruzione sovrastante. A sorpresa le cornacchie hanno banchettato con il cibo di Silvia ma per il resto tutto il materiale e' al suo posto. Decidiamo di tenere ramponi, imbraco e picca. Non si sa mai. Ci aspettano in tutto 2200 metri di dislivello fino alla macchina. 900 li abbiamo fatti ma ne restano 1300 particolarmente ostici quando terminato il nevaio rimettiamo ramponi e picca e scarponi nello zaino rendendolo pesante come un macigno. Eppure arriviamo in fondo, io e Marcello praticamente correndo, lui perche' non e' umano, credetemi sembra l'erede di terminator, io perche' sento lo zaino tranciarmi le spalle e non vedo l'ora di arrivare per togliermelo di dosso. Arriviamo al parcheggio con oltre 30 minuti di anticipo sul programma. Di fronte al baule aperto della Focus SW di Marcello sorrido estatica. La fatica e' finita resta solo la gioia del riposo e la prospettiva del ricordo. Una volta arrivati gli altri ci godiamo una birra gelata e l'ultimo sole francese e poi via, verso casa.

Daniela







Era un mio sogno da tanto tempo l'Adamello: la montagna bresciana per eccellenza, posta all'estremo confine nord della provincia a difendere i nostri ghiacciai dalla cupidigia austro-trentina :P... un segno di confine tra la grigia cultura operaia delle nostre valli e l'incantato pittoresco mondo trentino/altoatesino cosi lontano dal nostro sentire. Un baluardo che gia' molte volte ci ha difeso con la sua inaccessibilita', tanto simile a quella dell'animo di Brescia, rinchiuso tra mille cortine che lo negano allo sguardo del passante di qualsivoglia vallata, non solo dalle direttrici principali della vita comune, ma anche da quelle dell'escursionismo all'interno del suo massiccio. L'Adamello si lascia vedere solo da chi riesce a conquistarlo e forse non ancora. A questi mostra la schiena, ammanatata e difesa dalla sua famosa coltre di ghiacci eterni, rigata dai mille crepi che i lembi del mantello hanno creato nei secoli tirandolo dagli estremi. E chi li risale per attraversarne la gobba, risalirgli il collo nevoso e sedersi finalemente in testa puo' solo arrivarvi commosso, come me, e guardare finalemente nella stessa direzine del Gigante, verso nord, il lago Venerocolo e la Val d'Avio e piu' oltre perdere lo sgurado verso l'Austria in un'infinita' di vette grigie da cui emergono le poche isole bianche degli altri giganti delle Alpi. Ma ancora non lo si e' guardato negli occhi. Per farlo l'unico modo e' risalire il ''calvario'' e giungere al rif. Garibaldi. Solo allora si capisce il senso di una montagna cosi' poco appariscente, cosi' refrattaria all'attivita' ludica dell'arrampicata, e percio' cosi' poco frequentata. L'Adamello e' alpinismo vecchio stampo, fatto di PD e tanta fatica, rifugi piccoli, un'alta via dove non troverete mai folla, un ghiaciaio gigantesco (il piu' grosso interamente in territorio italiano), una parete nord attraente ma che poi non si presenta quasi mai in condizione anche a causa della roccia non solidissima, scarse e maltenute attrezzature, accessi alle valli faticosi anche per raggiungere i rifugi piu' alla portata. Insomma, quella di venerdi e' stata una giornata in vero stile adamellino: via sporca di neve e ghiaccio senza l'ombra di una traccia, ghiacciaio con i crepi coperti dalla neve di due giorni prima, una stupenda anche se facile cresta di neve e roccette, per giungere soli in vetta a suonare la campanella dopo 1500mt di dislivello dal rifugio. Cosa volete di piu'? un cielo blu cobalto? c'era. Unico neo della giornata e' stato l'abbandono della salita da parte di Don Daniele, trovato al rifugio Gnutti, costretto a fermarsi al pantano del Miller per non sentirsi bene, che pero' ci ha regalato un nuovo socio di cordata, Don Dario, col quale dividere la gioia della Vetta. Un saluto ai soci e un arrivederci all'Adamello: verro' ancora a salirti in testa e a guardare giu', 900 mt piu' in basso, gli ultimi crepi che ancora ti coprono i piedi.

Nicola







Che sono un pivello si sa. Mica me ne vergogno. Ma quest'anno, complice la voglia di tentare qualcosa di piu' impegnativo delle escursioni degli altri anni, le ritirate sono state frequenti. E' una cosa nuova anche questa, a dire il vero: andando per rifugi o su facili cime che non superano il gradino dell'EE la parola ritirata resta fuori dallo zaino, nascosta tra le pagine di qualche libro di montagna, dove l'autore fa davvero sul serio ed e' largamente giustificato se qualche volta le condizioni avverse della montagna lo invitano a scendere piu' che a salire. Ma trovarsi li, a 15 metri dall'uscita di quel camino che gia' una volta ti aveva respinto, con un altro socio, piu' esperto del precedente, nel quale forse confidavi per sciogliere questo nodo bizzarro, e non venirne comunque a capo, ti fa un po' incazzare... Ma e' vero: il camino non si sale. Non da noi, non senza un ancoraggio per la corda. E quello non l'abbiamo. Caz, l'altra volta piovigginava, era tardi, ci si aspettava un II- di tutto riposo, e avevamo trovato sto bel camino verticale a sorpresa. L'avevamo mollato nel dubbio che effettivamente la via non passasse di li: dai, il II grado lo conosciamo, non e' verticale, le mani servono solo per l'equilibrio (avete mai letto la decrizione dei gradi UIAA?) e non era possibile che fosse lui quello che abbiamo davanti. Nulla di che s'intenda, ma quel tanto che basta per lasciarlo li con la serenita' di chi non ha nessun motivo reale per andare per montagna, se non la sola voglia di godere di ogni momento che la roccia o il ghiaccio gli regala. E allora il camino resta li anche sta volta e, dopo innumerevoli quanto vane perlustrazioni di ogni anfratto della parete griagiastra, decidiamo che le "bocchette" laggiu', dove formicolano mille turisti, saranno una buona meta e giustificazione per tutte le lunghe ore di macchina che come sempre siamo stati costratti a sorbirci. Magari la corsa per salire fino alla Bocca di Brenta dribblando a ritmo folle ogni altro escursionista ora resta uno sforzo un po' vano, ma il paesaggio, noteremo, sapra' consolarci a modo suo. E anche le bocchette, a dire il vero, non sono poi cosi' male come le abbiamo sempre pensate: si e' fatto un po' tardi coi tentativi alla Brenta Bassa e cosi' sulla ferrata che ci porta all'Alimonta ora non c'e' piu' quasi nessuno. E' quasi un piacere incontrare una famigliola tedesca che smoschettona serena, o fermarci a sentire le urla delle cordate sui vari versanti del "Bass". Un piccolo gioiello lo incontriamo quasi giunti alla meta: la Vedretta degli Sfulmini non impensierisce chi la attraversa ma regala un bel colpo d'occhio, specie a gente come noi, che non vede di buon occhio la montagna senza ghiaccio... Una birra al rifugio e giu' di corsa verso Vallesinella tagliando piu' tornanti possibile.

Nicola







Quando ti senti un po' sfasato, al lavoro sono tutti impazziti, e' un po' che le cose non sono proprio "all in a row" nemmeno alpinsiticamente... ebbene ci vuole una cima! Una bella cima, possibilmente sopra i 3000mt, con del bel ghiaccio, tanto ghiaccio, una cresta non troppo tecnica (richiederebbe condizioni psico al top) ma di soddisfazione, un bel girone lungo da dimenticare il mondo e una croce aerea e dominante. Ecco cosa ci voleva questo we, ed ecco che dopo un po' di uscite sfortunate finalemente io e Marc l'abbiamo avuta! La cima in questione e' la Weisskugel o Palla Bianca, 3739mt slm proprio sul confine con l'Austria. Una vetta molto considerata per le scialpinistiche primaverili ma, da noi italiani, poco coonsiderata alpinisticamente. Erroneamente, dico io. E per due motivi: la normale, pur essendo facile, presenta uno sviluppo molto consistente che le gira attorno su tre versanti dando cosi' a chi la sale una panoramica della montagna e dell'ambiente circostante completa; la cresta nord da noi percorsa, se trovata in buone condizioni, regala una salita mai difficile (e' gradata PD+ da alcuni siti per via dello scivolo ghiacciato terminale) ma molto aerea e di soddisfazione. La guida CAI delle Venoste recita a proosito della cresta nord: ore 5 molto difficile. - E' una delle piu' belle ascensioni su ghiaccio che e' dato compiere nella zona, e le difficolta' dipendono dalle condizioni della neve. Si parte dal paesino di Melago, al termine (e' proprio il caso di dirlo, finisce contro un recinto di legno) della strada della Vallunga, un valle laterale che si dirama nei pressi del lago di Resia, in Alto Adige. E' un paesino giocattolo, un po' da cartolina svizzera, con pascoli di erba da campo sportivo e sentiero di ghiaietto bianco, escursionisti in costume tirolese con tanto di piuma nel cappello... Il sentiero piu' in la nella valle torna nella norma: piega a sinistra e si inerpica sul lato sinistro della valle seguendo il cavo della teleferica fino a un pulpito su cui si scorge la struttura lignea del rifugio Pio XI (o Weisskugelhutte) di proprietà del CAI Desio. La mattina si parte alle luce delle frontali alla volta delle lingue di ghiaccio che si scendono alla testata della Vallunga, qualche decina di metri piu' in basso del rifugio. Si scende una costa erbosa, si traversa un pendio sabbioso di sfasciumi su una sottilissima cengetta e si giunge al fronte del ghiacciaio per rimontarvi alla nostra sinistra. Ora siamo sulla morena centrale che divide due lingue di ghiaccio. La risaliamo su sfasciumetti, che coprono in realta' un dossone di ghiaccio, fino al suo termine, intorno ai 2900mt dove curva sotto la spettacolare seraccata della Vedretta di Croda e si impenna per depositarci sul ghiacciaio vero e proprio, dapprima molto crepacciato e poi piu' compatto ma con crepi gigantesci da cui stare molto lontani... Non appena il ghiacciaio diminuisce un po' di pendenza i crepi smettono e la nostra traccia abbandona quella della normale e punta decisamente a destra, in direzine della sella tra la quota 3250 del primo risalto di roccia marcia della cresta nord e l'inizio della cresta percorribile. In poco siamo sulla sella, non senza fatica e saltando ancora qualche crepo, ma da qui iniziamo il nostro gioco. Dapprima la cresta e' larga e di facili rocce compatte, poi si restringe con rocce montonate ma sempre coperte di neve nei punti giusti, per non farci fare troppa fatica e non segnare le rocce con i ramponi... Dopo la meta' diventa nevosa e si impenna passata una sella con due crepacci ortogonali. Ora ci troviamo sotto il grande risalto che sostiene l'anticima, lassu' sopra di noi, difesa dalle ultime roccette: attacchiamo l'affilato spigolo di neve che subito si scopre essere poca e molle: i ramponi devono percio' lavorare sul sottostante ghiaccio, che pero' non e' mai troppo compatto e regala una buona presa alle punte d'acciaio. Che bello! ci fermiamo per delle foto. Marcello sopra di me sembra su un famoso spigolo Himalaiano... e sotto di me la parete precipita fino all'ultima selletta, disegnata sul filo di cresta dalla nostra traccia! Io sono un pivello e percio' assaporare questa sensazione mai provata mi riempie di gioia e, a dire il vero, anche un po' d'orgolio! per una delle poche volte mi sento proprio dove vorrei essere, non ho paura, me ne infischio proprio della fatica. Attorno a me solo cielo, le montagna sono lonatane, le uniche persone sono puntini sulla normale e il mio socio in realta' non e' una persona: e' il mio socio e basta. Provo a scattare due foto ma capisco che non c'e' nulla da fare: sono emozioni e non restano sullo schermo della digitale. Continuiamo: ancora ghiaccio, poi roccette da salire tra i canalini ghiacciati fidandosi di prese che ripensandoci... Anticima, poi Vetta. Due metri quadri di roccia rossa e una croce fiammeggiante. Una cordata, in tedesco, ci da il benvenuto (chi si ricorda la parola esatta? pare sia un'abitudine di chi si trova in vetta). A guardar sotto e' tutto un aprirsi di crepi e un allungarsi di lungue di ghiaccio che spingono morene curve giu' per le tre valli che si diramano dalle pendici della Weisskugel. Gli amici dell'Ugolini sono sul Similaun per l'uscita finale del corso di Alpinismo: quale sara'? Qui e' uno spettacolo maestoso, un susseguirsi di vette ognuna delle quali, nessuna esclusa, e' il vertice di un ghiacciaio che precipita verso il nulla nella nebbia che copre i fondovalle. Firmiamo il libro di vetta e giu dalla normale... che e' cmq una bella via. Scende prima le roccette della cresta sud che dopo poco diventa nevosa, poi si allunga verso ovest su un nevaio a calotta (weisskugel pare voglia dire proprio calotta bianca, in barba alla storpiatura della traduzione italiana) che porta a un salto di ghiaccio da "gattonare" all'indietro, poi gira sotto il salto di ghiaccio, in direzione est, traversando sotto i contrafforti sud, piega verso nord costeggiando a est la calotta ormai ben alta sopra di noi. Due bocchette dopo siamo di nuovo in vista della cresta, sul ghiacciaio nord, che percorriamo in discesa fino al punto dove la nostra traccia si era staccata da quella della normale e proseguiamo sul cammino gia' fatto la mattina indietro, lungamente, fino al rifugio. Birra per festeggiare, anzi Radler (5.5euri... 'azz!), e a casa!

Nicola